Alla domanda “Andiamo in Verdon?” un silenzio quasi spettrale riempie improvvisamente la piccola palestra d’arrampicata Totem del CAI di Carpi. Il ronzio di un ventilatore lontano è l’unico suono percettibile finché Dalila, un’istruttrice responsabile della palestra, non si fa avanti;
“Non ci sono mai stata, ma tutti me ne parlano come se fosse il canino dell’inferno!”
Si narra in effetti di chiodature infinite, arrampicata extra-tecnica ma soprattutto gradazioni fuori dal comune.
“Io risposi…”.
Ora, nonostante le particolarità dei suoi itinerari (più o meno esagerate di racconto in racconto), io trovo il Verdon prima di tutto un posto mitico, mistico: un angolo di pace dove vivono ancora persone che hanno dedicato là l’intera vita all’arrampicata, esistenze spese nel realizzare itinerari unici e magici.
“Chiaramente calarsi con 350 metri sotto il sedere, per poi tirare giù la corda nel bel mezzo di quel mare di calcare grigio e perfetto e ripartire non è proprio da tutti i giorni. La chiodatura è sempre stata lunga ma mai eccessiva, i “voli” sono su protezioni sicure ma comunque per noi mortali, adrenalinici come dovrebbero essere.”
Partiamo decisi io, Dalila e due grandi amici che si dedicano a vacanza e foto “professionali”: in 21 anni di carriera non ho mai avuto una bella foto nel mio Verdon. Mio Verdon? Esatto. Grazie a climbers di spicco reggiani ho conosciuto personaggi unici, gente che l’ha vissuto tutto e che ora lo apre a me: Francoise e Chantal Guillot, Patrick Edlinger, sua moglie Mathia Polackova e molti altri che hanno permesso al mondo intero di potersi muovere sulle splendenti pareti di roccia morbida che coreografano l’immenso verticale.
Arriviamo dopo le 8 ore di strada e la prima cosa da fare è andare sul canino e calarsi per percorrere due semplici itinerari prima del tramonto, proprio come una volta, al campeggio si penserà dopo; il rituale prevede poi un po’ di relax al Bar del la Place del piccolo paesino la Palud sur le Verdon.
E’ meraviglioso come quel paesino ospiti tutti gli arrampicatori di nuova e vecchia generazione: proprio mentre scalo, infatti, mi sembra di sentire alle mie spalle parole di inconfondibile dialetto reggiano…
“Ma cul lè l’è Alex?”
“Alex….sei tu?”
Girandomi, quasi mi commuovo alla vista di Franca e Gabriele Bernazzali, il mio “nonno” di Bismantova: il piccolo mondo dell’arrampicata gira sempre intorno a pilastri portanti come quest’uomo, che ha girato a sua volta per 40 anni attorno alla roccia con moglie furgone e un piccolo cane al seguito.
Considero invece il mio “nonno” Verdoniano Francoise Guillot, colui che piantò il primo chiodo in una fessura di questo rinomato canyon: dopo averla superata, nel 1968, fece proprio sulla sommità la proposta di matrimonio a Chantal, la sua ragazza dell’epoca, e questo valse alla via (13 lunghezze, linea splendida e logica) il nome “Demande”. Fu proprio con Francoise che andai in Thailandia ad arrampicare e fu lui a chiamare Mailee la mia bimba, il mio grande amore!
Gabriele e Francoise ci svegliano insieme la mattina dopo e da dentro il baule della mia macchina escono solo parole impastate dal sonno, qualcosa di simile a un “Dove andiamo? A fare due tiri?”; “C’è una nuova via” è la secca risposta, appena preoccupante conoscendo il personaggio ma si raccoglie la sfida della roccia giorno per giorno, no? Quindi un bel respiro, guardo negli occhi Dalila ed è deciso.
“Non voglio nemmeno sapere i gradi, andiamo!”
Scendiamo cullati dalla prima mattinata per il sentiero della Maline e dopo una trentina di minuti siamo all’attacco: l’imponente parete ci offre un primo tiro strapiombante con un singolo di 6b+ per poi continuare a muoversi sotto la pancia di uno strapiombo con movimento particolarmente estetico, un rovescio di quelli che ti fanno davvero pensare che quando una via ti concede una presa del genere è un po’ come se si concedesse essa stessa a te, permettendoti di passare. Proseguendo fatico ad arrivare alla prima protezione, la via è ricamata perfettamente con fischer nuovi, non proprio al metro ma sempre sicura.
Segue una stupenda placca facile di 5c/6a su un terreno speciale, una fantasia a base di inserti di roccia vulcanica a liste agglomerati con morbidissima roccia grigia, uno spettacolo particolare e mai visto prima; recuperata un’estasiata e sorridente Dalila, seguo Francois, che nel frattempo è sparito dietro una prua, dopo qualche metro però i chiodi spariscono dall’orizzonte.
Scruto ovunque, cerco il riflesso del fischer ma nulla… “Arrampica in discesa!”
Guardando verso il basso in effetti avvisto il primo chiodo circa a 5 metri in diagonale sotto di me: parto deciso e affronto un affascinante e delicato traverso a mezzaluna, passaggi tecnici e movimenti in aderenza alla continua alla scoperta di queste linee incredibili. Quaranta metri dopo sorrido raggiungendo la sosta, penso all’apritore di questo viaggio perfetto che fino a oggi solo una decina di cordate hanno affrontato.
Percepisco i rumori di un volo, la ferraglia del compagno di cordata di Francoise tintinna: stanno lottando con il tiro cruciale della via, una compatta placca grigia a gocce, scalata tecnica e precaria tanto da lavorare su monodito sia con le mani che con i piedi!
Navigo in un ruvido oceano di silenzio, un serie di incroci e cambi piede su piccoli appigli, per poi immergermi nel passaggio chiave della via.
“Alex c’est le crux!”
“L’ho visto Francoise” sputo d’un fiato, la destra in un monodito, la sinistra in un monodito rovescio e, come se non bastasse, i piedi in aderenza. Un allungo e sono fuori, mi appoggio alla placca grigia, chiodata molto lunga (sulla decina di metri ora!) ma con buone prese per mani e piedi, per poi raggiungere un tetto e finalmente la sosta che mi mostra un semplice traverso orizzontale sotto un tetto, la roccia vira sul giallo.
L’ultimo tiro mi vede impegnato in un violento movimento iniziale che mi conduce su uno strano tratto a mezza luna verso sinistra, roccia solida ma particolarissima fino alla sommità.
Veramente un’esperienza sorprendente, con molta calma ci siamo goduti un itinerario di media difficoltà che non accusa cicatrici di tempi migliori, senza la roccia consumata dal passaggio di milioni di ripetitori delle superclassiche.
Un’altra fatica doveva però ancora arrivare: decisi a raggiungere la strada senza seguire alcuni ometti che identificavano uno strano sentiero, finiamo per affrontare la scarpata in una salita ripidissima fino a bordo strada, consumati cotti da un sole allucinante.
Aggiungiamo la ciliegina a questa vacanza con un bagno al lago quantomeno rigenerante seguito dal lento rientro a Cavriago, patria dei Cani Sciolti, coloro che mi insegnarono ad amare la montagna
Redatto da Alex Stecchezzini e da Pietro Cingi.